mercoledì 23 maggio 2012

TRADURRE E TRADIRE






Riguardo alla traduzione di testi liturgici e Sacra Scrittura.

Esistono diversi testi sia della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo e di San Basilio, sia di vari testi liturgici e della Sacra Scrittura; tradotti dai testi originali si proclama. Sicuramente in passato ci sono stati diversi errori nel tradurre il testo greco, originale, in latino per la non perfetta conoscenza della lingua  greca.
 Vedi a questo proposito la preghiera Domenicale e l’esegesi del Padre nostro da Sant’Ambrosio (Libretto: La Fede dei Padri). Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra. Dacci oggi il nostro pane essenziale, e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. E non ci esporre in tentazione, ma liberaci dal maligno.
Vedi anche Luca 17, 20-21, il testo originale in greco dice:Ἐπερωτηθεὶς δὲ ὑπὸ τῶν Φαρισαίων, πότε ἔρχεται ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ, ἀπεκρίθη αὐτοῖς καὶ εἶπεν, Οὐκ ἔρχεται ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ μετά παρατηρήσεως· οὐδὲ ἐροῦσιν, Ἰδοὺ ὧδε, ἤ, Ἰδοὺ ἐκεῖ. Ἰδοὺ γὰρ, ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ ἐντὸς ὑμῶν ἐστίν. Traduzione CEI e non solo: Interrogato dai farisei: «Quando verrà il regno di Dio?», rispose: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!». Chi ha una minima conoscenza di greco, anche scolastica, si chiederà come mai ἐντὸς ὑμῶν è stato tradotto è in mezzo a voi invece di è dentro di voi. Una mia piccola ricerca fa risalire questi, ma anche altri, errori alla Vulgata, in altre parole al beato Gerolamo. Ma mi pongo la domanda perché anche nei giorni nostri si continua a portare avanti errori del genere? I professori che traducono la Sacra Scrittura dai testi originali è possibile che non conoscano il greco? Non sarà forse che per il Vaticano riconoscere gli errori, anche errori di questo genere, è sempre difficoltoso?
Consideriamo adesso anche le odierne traduzioni di testi liturgici.
Ci si ostina a chiamare la Vergine Maria “Madre di Dio” cancellando il fatto che l’argomento è stato affrontato da un Concilio Ecumenico e che i Padri nel Concilio Ecumenico del 432, riunito nella città di Efeso, dichiaravano: “Professiamo la Vergine Theotokos poiché il Verbo di Dio si è incarnato diventando uomo in lei ..”. “Theotokos”, cioè colei che ha partorito Dio incarnato. Questo termine è stato adottato dalla Chiesa universale di allora. La Chiesa doccidente adoperò il termine Deipara che in latino significa appunto “colei che ha partorito Dio”.
Nelle varie traduzioni dell’Inno Acathistos, al di fuori di quella dell’Antologhio, l’arcangelo si rivolge alla Vergine con Ave o Salve ignorando le considerazioni dei teologi bizantini riguardo al saluto dell’angelo. Giovanni Geometris riguardo al saluto dell’Angelo dice: “Gioisci, perché la gioia hai concepito, la gioia è cresciuta nel tuo ventre, la gioia che oltrepassa ogni intelletto e parola hai generato ..”. L’arcangelo Gabriele porta alla Vergine il gioioso annuncio ed insieme a lei gioiscono le schiere angeliche e ogni uomo in terra. Gioiscono tutti, piccoli e grandi, servi e potenti, poiché la Vergine diventa motivo di gioia spirituale per l’ecumene. Gioisci perché partorirai il Salvatore.
Ci si ostina a chiamare il Signore “amico dell’uomo” nella quasi totalità dei testi tradotti, ma il rapporto fra il Signore Iddio e l’uomo non è un rapporto di amicizia ma di amore, di eros dicono i Padri della Chiesa. Il rapporto fra Dio e l’uomo è un rapporto di amore come ci conferma anche l’evangelista Giovanni: “Dio ha così amato l’uomo da mandare il suo Figlio unigenito..”. Dio non si incarna per amicizia ma per amore, non subisce la passione perché è amico dell’uomo ma lo fa perché lo ama. Dio è colui che ama l’uomo. A me personalmente il termine “Filantropo” sembra il più appropriato anche se oggi giorno ha un significato, nella lingua corrente, diverso ma ha la sua valenza nel linguaggio ecclesiastico. “Filantropo” infatti è composto da due parole: “fìlos” e “antropo” che significa colui che ama l’uomo.
Il termine “Kirie eleison” (un termine che è stato usato fino a qualche anno indietro da tutta la Chiesa, d’oriente e d’occidente) è tradotto con la parola pietà, ma anche il termine ἱλάσθητι che significa compassione è tradotto allo stesso modo pietà. “Kirie eleison” risulta essere di difficile traduzione poiché il suo significato esatto sarebbe: Signore abbi compassione di me peccatore e donami nella tua misericordia e amore quello di cui ho bisogno: amore per amarti, pace, forza per resistere alle trappole del demonio, purezza ecc..
La traduzione più appropriata di “eleison”è “abbi misericordia” e a questo proposito seguirà un testo di padre Ambrosio di Torino che ha affrontato e approfondito l’argomento.
Mi chiedo perché si continua a usare questi e altri termini che alterano la teologia fin qui tramandata dalla Chiesa? Perché anche gli ortodossi (non tutti) che dovrebbero essere i più attenti a custodire usano queste traduzioni?

Note sull’uso di pietà e misericordia dell’ Igumeno Ambrogio

DOMANDA
Caro padre Ambrogio,
nelle tue traduzioni, il greco elèison è tradotto con “abbi misericordia”. Perché non segui la maggioranza delle versioni correnti, che traducono “abbi pietà”?

RISPOSTA
La terminologia “abbi pietà” è lo specchio di un uso molto povero e decadente della lingua italiana, nel quale ha non poco peso l’inserimento della mentalità feudale che ha progressivamente estraniato l’Occidente cristiano dall’Ortodossia.
Il latino pietas indica precisamente la devozione (evlavia in greco e in romeno, blagochestie o l’equivalente blagogovenie in slavonico), cioè l’atteggiamento di giusto rapporto con la divinità (ovvero, come ancora oggi si dice in italiano, l'essere “pio”). Tale qualità non ha correlazione con l’esercizio della misericordia (in slavonico e romeno mila: la sua sfera semantica può comprendere: amore, tenerezza, indulgenza, commiserazione, compassione…) se non nel senso lato e popolaresco di “appello alla pietà” di una data persona, di cui si vuole stimolare il senso religioso perché usi compassione. Il fatto di volersi appellare alla pietà (=devozione?) di Dio indica quanto improprio sia l'uso di questa espressione corrente.
In latino – spero non ci sia dubbio tra alcuno studioso – pietas e misericordia non erano affatto sinonimi. Sulpizio Severo, al punto 27/2 della Vita Sancti Martini episcopi et confessoris, scrive di san Martino: numquam in illius ore nisi Christus, numquam in illius corde nisi pietas, nisi pax, nisi misericordia inerat. Se nel cuore di san Martino non c’era altro che pietà e pace e misericordia, pare piuttosto evidente che pietà e misericordia – ameno alle orecchie di un autore cristiano del IV-V secolo come Sulpizio Severo – non siano la stessa cosa, così come nessuna delle due è la stessa cosa della pace.
Prendiamo come altro esempio – soprattutto perché riguarda un appello accorato – una delle colonne del pensiero cristiano ortodosso in (ottima!) lingua latina, i Dialoghi di san Gregorio Magno. Nel primo capitolo del libro III, san Paolino di Nola accompagna una vedova in Africa per ottenere la liberazione del figlio della donna, prigioniero del genero del re dei Vandali. La donna prega il barbaro con le parole: solummodo pietatem in me exhibe, “soltanto mostra pietà nei miei confronti”, ovvero “abbi soltanto pietà di me”. Versione perfetta e antica e ortodossa, MA… riferita al genero di Genserico, NON a Dio onnipotente!
Nessuno, nell’antichità cristiana, avrebbe avuto la sfacciataggine di chiedere la pietas di Dio (…a chi dovrebbe essere devoto, Dio?): si chiedeva piuttosto la sua misericordia (termine latino così come italiano), e questo è quel che fa ogni autore ortodosso in Italia fino al tempo del feudalesimo. Poi, con il moltiplicarsi degli appelli alla pietas per stimolare il potente di turno a essere pius e a non scannarti, la misericordia inizia surrettiziamente a cedere il passo alla “pietà” nel periodo più oscuro dei latinismi liturgici.
Uno dei meriti del Compendio liturgico ortodosso (1990) – per il quale non sarà mai ringraziato abbastanza – è quello di avere messo in discussione nell’ambiente ortodosso italiano la traduzione di èleos con il termine “pietà”. Al suo posto propone il termine “misericordia”, nulla di fantasioso, ma semplicemente la corretta traduzione latina (e italiana) di èleos. In tal senso non si è mosso solo un gruppo di ortodossi: così traducevano già da tempo serie figure del mondo cattolico come padre Giovanni Vannucci, osm (1913-1984) e don Divo Barsotti (1914-2006), buoni letterati e poeti oltre che esperti di lingua liturgica.
Non vedo buone ragioni, in una nuova traduzione della Liturgia, di tornare al linguaggio sacrocuorista delle versioni precedenti. In tale linguaggio non c’è nessun dogma conclamato, senz’altro, ma perché, se ce l’abbiamo teologicamente con i sacri cuori, dobbiamo meschinizzarci linguisticamente a parlare da sacrocuoristi? Forse che i modi con i quali ci esprimiamo non hanno alcun nesso con il modo di vivere la nostra fede? Non riesco a spiegarmi perché gli ortodossi di oggi, talvolta attenti in modo maniacale a cogliere i pensieri dell’Occidente latino (radici di eresie vere o presunte) devono poi bersi supinamente le espressioni linguistiche che vengono dalla stessa fonte, invece di usare i termini altrettanto accettabili dell’antico Occidente ortodosso.
Queste piccole ma importanti considerazioni sono il sine qua non di una sensibilità linguistica alle cose sacre. Se una retta dottrina porta a una retta pratica, una buona semantica non può che aiutare una buona intelligenza della fede.
Vogliamo poi vedere che razza di caos viene a crearsi nelle nostre traduzioni con l’inclusione di questa piccolezza, la “pietà di Dio”, di questo “iota”, di questa innocua espressione che tanto “ormai è entrata nell’italiano corrente”?
1 – Quei punti che meriterebbero davvero la traduzione letterale di “pietà” – per esempio la petizione per quelli che entrano in chiesa “con fede, pietà e timor di Dio” – diventano oscuri. Di solito si mantiene in questi punti il termine “pietà”, e non si riesce più a capire in cosa questa pietà dovrebbe distinguersi da quella riferita a Dio negli altri punti in cui si è tradotto eleos in questo modo.
2 – Quando si traduce eleos con “pietà” non si riesce mai ad andare a fondo nella coerenza. Perché “Abbi pietà di me, o Dio, secondo la tua grande misericordia” e non: “Abbi pietà di me, o Dio, secondo la tua grande pietà”? Si tratta dello stesso termine.
3 – A “misericordioso” cede il passo “pietoso”, oggi piuttosto sinonimo di “oggetto di compassione” (come in: “avere un aspetto pietoso”), e chi non si sente di parlare di un “Dio pietoso” se non in apnea, ritorna spesso e volentieri a usare il termine “misericordioso”, usando deliri di confusione del genere “abbi pietà perché sei un Dio misericordioso”.




2 commenti:

  1. La Tradizione latina dell'epoca ortodossa ha sempre o quasi lasciato Kyrie eleison proprio per la difficoltà di tradurlo. Infatti il "eleison" c'è la radice di "el" l'olio di oliva che era un grande lenitivo per le scottature ed una medicina per le ferite (anche nella parabola del buon Samaritano questi (Cristo) cura lo sventurato medicando le ferite con olio e vino". Credo che anche noi dobbiamo fare come l'antica ed ortodossa tradizione latina e non tradurlo. Non so le slavonico, che non conosco, riesce a rendere il senso "medicinale e lenitivo" del termine originario greco.
    +Silvano

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